domenica 17 giugno 2012

Quei centomila pellegrini che fanno ripartire la speranza

MACERATA-LORETO, UN SEGNO PER L’ITALIA SMARRITA 
« Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli. E andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune». L’Innominato «guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa». Così Manzoni descrive nei Promessi Sposi  il momento in cui l’Innominato, dopo la notte dell’inquietudine suscitata dall’incontro con Lucia, si affaccia all’alba alla finestra e, vedendo la folla che si raduna per incontrare il cardinale Federigo, si domanda: «Che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?».
Non c’era l’Innominato, ma tanta gente semplice lungo i borghi nei quali si è dipanato il pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto, al quale nella notte tra sabato e domenica hanno partecipato centomila persone. E certamente domande analoghe a quelle rimbalzavano nella mente di quanti si affacciavano alle finestre o si assiepavano lungo i marciapiedi per guardare quello strano popolo che transitava davanti alle loro case, pregando e cantando. Cos’hanno di bello costoro? Dove sta il segreto di quella rara allegria dipinta sui loro volti, capace di rompere anche la crosta della fatica? Cosa tiene insieme persone per la maggior parte sconosciute l’una all’altra eppure così unite? Li tiene insieme il desiderio di trovare risposte credibili ai grandi interrogativi dell’esistenza, risposte che la Chiesa continua ad offrire alla ragione e alla libertà degli uomini in un tempo in cui è così difficile incontrare qualcosa di realmente affascinante. E il titolo del pellegrinaggio – proposto per la trentaquattresima volta da Comunione e liberazione in unità con le diocesi marchigiane e che ha portato un fiume di gente dallo stadio di Macerata alla Santa Casa di Loreto – suona come provocazione e sfida: «Cristo è qualcosa che sta accadendo ora». Ora, non duemila anni fa, serve Qualcuno che muova l’intimo dell’uomo, che accenda e compia il suo desiderio di verità, di bellezza, di giustizia.

Il pellegrinaggio a piedi è l’esperienza che più compiutamente esprime l’ine­sausta tensione dell’uomo a qualcosa di solido e duraturo, che sia insieme incontrabile nell’oggi e capace di resi­stere al tempo. Contiene tutte le di­mensioni dell’umana avventura: c’è la fatica fisica, come quella necessaria per percorrere 28 chilometri di notte; c’è il bisogno di qualcuno con cui con­dividerla, come l’amico che cammina al fianco o lo sconosciuto col quale si diventa amici per una notte; c’è la mendicanza dell’homo viator , 

il termi­ne con cui nel Medioevo veniva defini­to l’uomo, il viandante assetato di eter­no; c’è l’inesausta tensione alla meta, ma soprattutto la certezza che una me­ta da raggiungere esiste, che l’esistenza non è un vagabondare privo di oriz­zonti, che il cammino dell’uomo per essere certo ha bisogno di un luogo verso cui andare, dove quel cammino si compia.

I volti di quanti l’altra notte hanno camminato nella bella campagna mar­chigiana assomigliano a quelli di colo­ro che una settimana prima avevano stretto in un grande abbraccio il Papa all’aeroporto di Bresso. Uomini, donne e bambini che, come scrive Manzoni, andavano insieme come amici a un viaggio convenuto. Gente che testimo­nia anche plasticamente la natura po­polare della Chiesa, una natura così di­versa da quella che i grandi media si o­stinano a presentare, raccontando una realtà popolata di corvi e veleni e ispi­rata più ai racconti di Dan Brown che alla realtà, e chiudendo gli occhi e le pagine dei giornali a fatti come quello che ha visto protagoniste centomila persone (e scusate, cari colleghi, se quei centomila non vi sembrano una notizia).

Questo popolo è fatto di gente che non nasconde i propri errori e insieme ri­conosce che c’è Qualcuno che è più grande di essi ed è capace di far riparti­re l’uomo in qualsiasi condizione.

Questo popolo non accetta di essere confinato nelle sacrestie, vuole offrire un contributo alla terra in cui vive e che ha plasmato nei secoli. È segno di speranza per un’Italia dove la dispera­zione avanza, è fattore di costruzione e positività in un momento storico in cui il cinismo e la rassegnazione guada­gnano terreno. Ottant’anni fa Pavese scriveva: «Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla acca­drà ». Anche a lui, come all’Innomina­to, come ai tanti che in questo tempo sperimentano la fatica di vivere, sareb­be piaciuto conoscere «cos’hanno di bello tutti costoro» e «cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tan­ta gente diversa».
Giorgio Paolucci da Avvenire 

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